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“Un mostro si aggira per l’altomilanese: un mostro di media dimensione” (un consumatore qualunque)

Siamo nell’altomilanese, sull’asse del Sempione. L’inceneritore di Figino è pronto a trasformare in fumo ciò che il mondo circostante spreme, scarta, corrode, consuma. La metropoli si riscalda e con lei Gianfranco Cervi, con Jimmy Polenghi assunto alla ricerca della bassorilievo del cristo appartenente al marchese Murazzo. Il nuovo contratto sociale li relega al rango di paria ma anche per loro è arrivato il momento del riscatto. Tutto fa pensare ad un nuovo capitolo della saga dell’uomo fatto da sé, ma un ippopotamo magico ci ricorda che questo non è un film di Frank Capra. Questo è un fottuto film no budget! Questo è Mostri di Media Dimensione!

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Ermanno X

Ermanno (Fabio Gusta Brasso), giornalista di Lobotomia Oggi, sta effettuando un’indagine su di un luogo tanto misterioso quanto lugubre: un complesso industriale abbandonato, in cui negli ultimi mesi sarebbero avvenuti strani ed incomprensibili fatti e che dal popolo dei ravers viene chiamato il vecchio pentolone.
In redazione è però l’unico a sostenere questa tesi e viene costretto dal direttore Barbera (Emiliano Castillo) a occuparsi d’altro…nello specifico, di una rapina che avviene in un pub irlandese ad opera di tre pericolosi criminali, alcuni di origine est europea.

Sarà invece Marta (Graziana Pagano) a completare le ricerche di Ermanno. Il giovane giornalista si sente offeso da questa scelta, tanto più che Marta collabora nel suo lavoro con Giada (Caterina Liotti), la sua ex compagna.
Il vecchio pentolone calamìta a sé anche la banda dell’ungherese, composta da tre rapinatori, italianissimi e -come si vede nella rapina al pub- con qualche problema organizzativo. A capo della banda c’è il celebre Ungherese (Kristian Pogliani), il cervello del gruppo il cui aspetto fisico è simile a quello di un boscaiolo delle colline transdanubiane.

Tre giornalisti e tre rapinatori in fuga si trovano costretti quindi a competere in un luogo macabro, consapevoli dell’enormità della posta in palio: la vita.

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Un tempo si chiamavano cafoni

regia riprese e montaggio Orsola Sinisi
durata 36m
anno di produzione 2006
menzione speciale al NIFF nel 2009

“Sono cresciuta in Puglia dove i bambini giocano per strada e il cielo è tanto
dove si parla una lingua strillata e le vedove si vestono di nero….”
Nell’ estate del 2006 ho conosciuto Daniele, rumeno clandestino approdato nel foggiano due anni prima per la raccolta del pomodoro e rimasto attraverso le stagioni per le olive, i carciofi, il grano l’uva e ancora il pomodoro…
Per due anni Daniele ha vissuto in tenda insieme a numerosi suoi connazionali svegliandosi al mattino, lavorando i campi per almeno 12 ore al giorno per 3 euro l’ora nel tentativo di mettere insieme i soldi necessari per comprare una casa in Romania e ricominciare
Ho passato del tempo con loro, i braccianti, ho conosciuto le loro storie e i loro diversi obiettivi, alcuni aspiravano a regolarizzarsi e trasferirsi in Italia, molti semplicemente fuggivano la miseria, e l’abitudine e la speranza li ha resi in grado di tollerare fatica e privazione
Nel video, come se intorno ad una tavola, si confrontano questi braccianti clandestini con un’immigrata regolare e due donne “indigene”, braccianti anch’esse, con i loro comprensibili pregiudizi nei confronti di questi nuovi arrivati che puzzano, portano via il lavoro e, cosa ancor più grave, insidiano i mariti
Fa da contrappunto un interprete critico della realtà che evidenzia nella globalizzazione e nelle speculazioni le reali responsabilità della crisi dell’agricoltura e nella radicata abitudine ad accondiscendere il padrone l’incapacità di comprensione
Quello che emerge nella terra di Di Vittorio è “una moviola del tempo”, e la memoria delle lotte sindacali, “del sangue versato dai nostri padri e dai nostri nonni,” si è cancellata assopita da un rumoroso benessere, “case grandi, magazzini…”, che non corrisponde ad un miglioramento della qualità della vita
“mondo era, mondo è, mondo sarà” conclude la zia Assunta: i nuovi interpreti dello sfruttamento agricolo sono gli stranieri; 50 anni fa anche noi italiani ci lavavamo meno e “per pisciare e cagare si andava in camporella“; sua sorella Nicoletta lo ha già dimenticato

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